Questioni fondamentali quali la morte
e la divinità vanno affrontate (rivendendole in modo
sostanziale senza limitarsi ad accettarne
l’immanenza) perché non è possibile rivalutare la
vita lasciandosi alle spalle enigmi irrisolti.
La vita si sviluppa su basi concrete
e queste formano la struttura portante sulla quale
costruire.
Oggi per l’umanità queste basi sono
morte e divinità; divinità vista e vissuta in
funzione di una morte inevitabile; divinità dunque
che non può che costituire l’agognato rifugio cui
ricorrere per sperare che la vita non si esaurisca
nella morte fisica.
Rivedere il concetto divinità non
vuol dire metterne in dubbio l’esistenza, bensì non
limitarne la consistenza.
Se una persona si nutrisse unicamente
di ciò che solo un unico albero offre e senza il
quale questa persona non sopravvivrebbe, è evidente
che tale albero assumerebbe un significato molto
particolare; andrebbe curato, amato ed addirittura
implorato se per qualche motivo i suoi frutti
dovessero tardare a comparire.
Se però la stessa persona dovesse
accorgersi che può fare a meno di mangiare i frutti
dell’albero riuscendo a vivere egualmente magari
solo attraverso l’aria che respira, ecco che allora
cesserebbe di divinizzare l’albero e vedrebbe l’aria
come strumento indispensabile alla vita. Strumento
con una sua provenienza che gli deriva da chi ne è
l’autore.
È cambiata l’ottica.
Pur essendo vero che anche l’albero
(se la persona si interroga) deve pur dipendere da
qualcosa che lo ha generato, essendo qualcosa di
tangibile e ben definito offre meno spunti per la
riflessione e l’introspezione. L’aria invece,
elemento non ben definito ed impalpabile, spinge a
chiedersi da dove arriva e chi è questo autore
capace di distribuirla a tutto e tutti in modo equo
ed a seconda del bisogno che ogni cosa ha per
sfamarsi di tale elemento.
Ma cambiando l’ottica muta anche il
concetto di divinità. Pur dovendo sempre ammettere
la dipendenza verso la stessa per vivere, la
divinità assume un significato più profondo perché
più profonda è la capacità che l’uomo acquisisce nei
confronti della vita e della sopravvivenza.
Infatti, divenendo l’uomo capace di
generare aria per vivere, quella che prima era
elargizione divina indispensabile diventa solo
utile. La divinità perde valore sotto questo punto
di vista ma ne acquisisce in sostanzialità perché è
evidente che ad una coscienza che matura traendo
consapevolezza dai sui interrogativi (i perché della
vita) non può sfuggire il perché della vita stessa e
da cosa questa dipenda.
Da qui la conseguente riflessione
sulla morte intesa come fine o sulla possibilità che
la vita continui in altro stato; domanda legittima
per una coscienza che si proietta sempre più verso
il sottile e per conseguenza verso la profondità del
suo stesso essere. Legittimità che dipende da dove
arrivano le risposte a tali domande; perché sempre
più si inizia a concepire un mondo interiore che
trasmette consapevolezza a chi sa trarne benefici
restando in ascolto.
L’ascolto della propria interiorità
apre una porta direttamente collegata con l’oltre;
con quell’aldilà sfuggente che prima sembrava essere
addirittura la divinità stessa.
Morte e divinità iniziano ad apparire
mete realizzabili perché, concependo l’uomo di
essere immortale dentro, inizia a convincersi che la
morte nella carne è un passaggio di stato, un
passaggio di condizione.
L’immanenza che avvolgeva la divinità
comincia a perdere consistenza; si sciolgono nodi
che velavano la coscienza e l’uomo comincia a
spostarsi (da vivo ed in Terra) su un piano di
coscienza che lo pone nella condizione di essere
contemporaneamente vivo nella carne ed oltre; vivo
come uomo che opera sulla Terra e vivo nella
condizione dell’essere immortale che non muore una
volta esaurito il compito terreno.
Ed anche la trascendenza perde valore
e finanche significato perché non c’è bisogno di
trascendere nulla per rivolgersi a se stessi, una
volta assodato che è sempre l’uomo l’essere che
continua a vivere dopo la morte fisica; uomo che
vive nella dimensione dell’immortalità.
Ma il passaggio/superamento della
morte (per chi lo compie perché acquisisce tale
capacità traendola dalla sua stessa interiorità
profonda) non estingue l’esistenza della divinità,
la rende anzi fondamentale a livello universale;
evitando di confondere Terra con universo.
Il fatto di raggiungere delle mete,
in questo caso il superamento della condizione
relativa terrena (con conseguente morte) a favore di
una condizione dove l’immortalità è dato certo
perché la si sperimenta già da vivi sulla Terra, non
estingue però la dipendenza dalla divinità.
Sotto profili diversi inizia ad
apparire una capacità così grande di regolare mondi
e dimensioni che per forza deve essere al di sopra
della stessa immortalità perché si entra nel
concetto/concezione della vita intesa come origine e
non come animazione.
Un po’ come dire spirito ed anima, ma
con risvolti sostanzialmente diversi dove l’anima
può ben dissolversi nello spirito se acquisisce la
capacità della vita e non soltanto quella della
animazione.
Ecco, oggi l’uomo può entrare nel
regno animico; superando l’eterico perché lo può
inglobare in sé. Inglobare in consapevolezza avendo
coscienza che oltre ad essere immortale può animare
l’energia; non in virtù del suo piacere di uomo ma
nella volontà (che però è anche la sua poiché
coincidente) della azione che prevede la datività
come requisito dell’anima.
Spirito è un’altra cosa. |