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Sogno

31 maggio 2005

 

 

Il perché della vita è sogno che insegna ad essere. Come se, risvegliandosi, si concepisse all’ improvviso che esistono verità profonde celate solo perché troppo distratti a non considerare che il sogno ha in sé l’essenza del risveglio, mentre la veglia detiene solo l’illusione della continuità figlia di una speranza che sa di non poter partorire certezze. Né di poterle procreare traendole da quell’aldilà che in fondo si nutre solo e soltanto della stessa sterilità.

 

L’aldilà, messo in discussione, deve scrollarsi di dosso la sua parvenza di immortalità; deve decidere se esserlo (immortale) o sperare che così possa in fondo forse essere.

 

L’aldilà è una struttura energetica nemmeno poi troppo sottile. Ė così vicina e simile alla fisicità da risultare soltanto il gradino o l’anello che congiunge o separa da qualcosa che sta ben oltre, talmente oltre che solo pronunciarne il nome, immortalità, sembra bestemmia o provocazione - sfida il cui esisto è sconfitta certa.

 

Eppure non è così. Questa è una benda oscura e rende l’attenzione monca di una caratteristica sostanziale: cosa si sta osservando.

Da qui si parte.

Perché se si osserva se stessi si è già perso in partenza. Non è questo il modo di porsi.

E se si osserva la realtà si è perduto egualmente perché la realtà è creazione dell’ego e non oggettività dell’essere.

 

Il processo di oggettivazione è esorcizzazione di un dilemma: la paura di non comprendere perché si è vivi.

Si ha una coscienza che impedisce di accettare di prendere tutto come se, giusto ed ineffabile, fosse la risultanza di un processo cosmico che produce stati d’essere e cicli che abbracciano uomini e coscienze superiori (dovendo attribuire coscienza a tutto, ai pianeti, alle stelle, così come anche alla cosiddetta materia più involuta) quando ancora la consapevolezza non ha cesellato nell’anima che vita significa già immortalità.

 

E questo è il punto, perché l’esser vivi lo si constata ma non lo si concepisce come strumento che consente (può consentire) all’ego di assurgere ad un ruolo di capacità.

 

L’ego in fondo è la rappresentazione animata della dualità, la pantomima di un’alternanza di eventi che se colti costringono al riesame per capire chi si è. Se vissuti inconsciamente allineano molto di più l’essere alla sua matrice che è spontaneità nel cui termine si cela un grande segreto: essere sempre in linea con l’azione divenendo, paradossalmente, consapevoli che è la realtà stessa a provvedere a tutto senza che nessuno abbia a preoccuparsi in vece sua. Consapevolezza senza coscienza! Anche perché la certezza non può porsi interrogativi..

 

Ecco che allora lo strumento di crescita per l’ego, la coscienza, mostra in modo chiaro ed evidente i limiti suoi che generano un campo di azione ed espressione dove la naturale propensione sono dubbio ed impermanenza, requisiti indispensabili alla dualità per alimentarsi di linfa riciclata che si può ben chiamare piano eterico. Piano eterico, o aldilà, prossimo alla Terra ed all’uomo che così possono ricorrervi e per vivere e per continuare a vivere cercando l’immortalità. Senza incontrarla però, perché l’ego non ha ancora preso coscienza di cosa è.

 

Riposto al margine dell’esistenza, l’ego presuntuosamente intende far valere ragioni, le sue.

Pur avendo un campo di azione limitato alla presenza che conduce sulla Terra, l’ego tende a tramandare le sue ragioni per trasmettere il suo potere a chi, in funzione dell’eredità, dovrebbe in qualche modo far perdurare ciò che scompare dalla scena allorché defunge per andare altrove.

 

Questo altrove è l’eterico, il corpo eterico della Terra che si nutre di un’energia utile al suo stato che, proprio per questo, alimenta coscienze dando input, sfogo ed impulso a quanto in Terra deve concepire che vita non vuol dire morte e dipartita ma consistenza che esprime istantaneità.

 

Si può dire che l’ego è inutile? Sicuramente no. Senza interrogarsi la consapevolezza non potrebbe accertare di essere tale.