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In cammino 1 febbraio 2008 Scoprire di essere diventati diversi, di essere in cammino verso la realizzazione di un progetto fantastico in cui chi partecipa prende e da in funzione di bisogni e capacità, pone l'attenzione su cosa si sta facendo. Perché facendo parte del progetto e non pianificandolo se ne ignora consecutività e tempistica. Del resto la consapevolezza nel momento presente (e cioè essere sempre presenti a se stessi senza divagare in congetture) prevede che l'intenzione corrisponda sempre con l'azione. Che non ci sia separazione tra intenzione ed azione. Non si cerca di pianificare ciò che si sta facendo perché se ne ha consapevolezza come stato d'essere. Quando azione ed intenzione non sono sullo stesso piano, proprio perché c'è separazione, succede che il pensiero prende il sopravvento generando tutta una serie di possibilità come scelte plausibili, prima di arrivare a quella definitiva. Non sapendo come fare ad agire per il meglio si cerca di pianificare il futuro restando irretiti in ciò che sembrando scelta fa uscire dalla sincronicità (che è caratteristica dell'azione unica quando azione ed intenzione coincidono alla perfezione). Certamente credere di essere nella condizione di poter scegliere da un senso di libertà che però costringe a verificare se veramente si è liberi. La vera libertà è non avere attaccamenti e, se attuata, implica accettare ciò che viene incontro esprimendolo attraverso la propria opera; dove l'azione è tutt'uno con l'intenzione senza il minimo dubbio che si debba alterare il flusso di ciò che avviene. Considerando che non si conosce il futuro, questo futuro potrebbe ben essere esattamente ciò per cui una scelta è stata tanto sofferta; risultato identico con stato d'animo diverso. In uno la consapevolezza, nell'altro il dubbio. Consapevolezza propria dell'azione unica (azione ed intenzione sullo stesso piano), dubbio conseguenza dell'azione duale (azione ed intenzione su piani diversi). Ciò nonostante fin tanto che non c'è esatta identificazione in chi si è nel profondo di sé si cerca di scegliere; si vorrebbe conoscere il futuro per poter assumere la posizione giusta. Si ha timore ad affidarsi a ciò che avviene e si pongono riserve proprio perché lo stato d'essere lo prevede. Se si avesse piena consapevolezza nell'azione da condurre (coincidendo azione ed intenzione e dove l'intenzione per come viene intesa non avrebbe nemmeno motivo di essere) non si sarebbe nella dualità dove scelta vuol dire esercizio del proprio volere; esercitare la propria volontà. Ma proprio qui sta il punto. Il volere e la datività. La coscienza di chi vuole e quella della datività. L'io voglio prevede un'azione per prendere, la datività implica avere già. L'io che vuole (proprio perché tale) deve prima possedere per eventualmente poter dare. La datività (proprio perché stato di donazione) dimostra che, oltre ad avere già, sa anche non trattenere per sé. Ma per essere veramente dativi (senza volerlo essere ma in modo spontaneo) bisogna diventare chi si è in uno stato più profondo di se stessi (dove proprio il tipo di esistenza prevede la datività) e questo implica identificazione rinunciando al se terreno senza riserva alcuna. Cosa che crea non pochi dubbi e la paura della perdita del potere individuale. Dubbi e paure legittime. Si tratta infatti di lanciarsi in un precipizio avendo la quasi certezza di continuare a vivere. Anche se è così solo perché così viene impostata l'elaborazione. Se si dovesse invece cogliere cosa si va a diventare, il problema non esisterebbe già alla radice. Perché l'uomo, divenendo man mano un essere diverso, è proprio man mano che può verificare quanti e quali pensieri ha nella sua mente (se non è lui stesso a cercare di porveli). Il cambiamento infatti implica anche trasformazione nella qualità dei pensieri ed addirittura la loro assenza. Se continuano a stazionare pensieri ciò equivale come a trattenere qualcosa per se e non c'è ancora identificazione; stato di datività. Se si assottigliano o tendono a scomparire vuol dire che si è già diventati diversi rispetto a prima. Cosa che consente di “calcolare” i rischi che si stanno correndo (se si ha paura che possano essercene); e di verificare anche se si sta lavorando di fantasia oppure se è reale ciò che sta avvenendo dentro di sé. Ed addirittura, se si scopre che tutto ciò è reale, dovrebbe servire a spingere verso la completa realizzazione di ciò che l'identificazione prevede. Spingere non inteso come perseverare nel cammino ma azione di verifica di chi si è diventati. Se cambiamento c'è stato, anche se non completo, ciò vuol dire che si è diversi. Ed è questo essere diversi che bisogna lasciar vivere. Perché è già proiezione verso il conseguimento del risultato. Quando ci si ferma e ci si interroga su chi si è in confronto a chi si era si può facilmente constatare se c'è stato un cambiamento. E anche se non si è ancora chi si dovrebbe essere ciò che conta è capire che non si è più chi si era prima. Anche se il dovrebbe è però dettato dalla propria elaborazione che prefigura un cambiamento il quale non è detto debba coincidere con ciò che in realtà deve avvenire. Si fanno domande vecchie per conoscere il nuovo impedendo così al nuovo di emergere perché non lo si sa riconoscere se non coincide con quel che si ipotizza (magari sbagliando). Porsi nell'ora, nel momento presente (quello che quando è così esclude la presenza d pensieri perché nella datività è il flusso stesso che esprimendosi crea) ha come conseguenza l'essere; l'essere sempre presenti a se stessi. Ma proprio perché si è, proprio perché si può constatare di essere diversi (anche se completamente o quasi senza pensieri), ciò vuol dire che siccome si può constatare di esistere senza sentirsi prigionieri di nulla e nessuno, i pericoli di perdita di libertà o potere personale sono infondati e frutto di paure soltanto. Anzi l'opera è rivolta verso una totale presa di coscienza di chi si è affrancando dalla schiavitù imposta dalla non conoscenza. Questo non per tranquillizzare dubbi e timori di chi è in cammino per relazionarsi col suo sé, ma rivolto a chi (senza nemmeno iniziare) nulla fa per verificare se esistono realmente pericoli adducendoli però come alibi per continuare a restare fermo in ciò che offrendogli sicurezza lo porta alla fine a morte certa. Una cosa è certa. Viene detto di rivolgere l'attenzione verso la propria interiorità, verso se stessi e se si ha paura di se stessi c'è qualcosa che non va. Ma, proprio perché la via conduce dentro di sé, ognuno la può (e finanche deve) percorrere da solo; solo lui può verificare testimoniandolo a se stesso i cambiamenti e constatare se sta cedendo potere personale oppure se questo cammino lo sta radicando come presenza viva nel qui ed ora. Perché se è così, se si rende conto di essere sempre più nel presente, allora la domanda da fare è un'altra. Chi sono io? Chi sono diventato? E da questo nuovo interrogativo (che permette di considerare il chi si è rispetto al chi si era) può venire fuori il grado di coscienza realizzato. Perché le paure, i timori che permangono sono proporzionali alla “distanza” da colmare. Ed i pensieri che si affollano nel voler rispondere al quesito non possono che evidenziare la loro incapacità. Seguire la via chiarisce, immaginarla confonde soltanto.
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